Il meraviglioso segreto della narrazione. Intervista a Francesco Niccolini
di Nella Califano e Francesco Brusa
Questo articolo è stato pubblicato su PLANETARIUM il 28 marzo 2018
Al festival Teatro fra le generazioni di Castelfiorentino Francesco Niccolini ha presentato “Digiunando davanti al mare”, un intenso spettacolo incentrato sulla parabola dell’attivista e sociologo Danilo Dolci. Gli abbiamo posto alcune domande sulla sua attività di drammaturgo, su come i toni e gli accenti della scena escano modificati dall’incontro con gli spettatori più giovani. Ne è uscita una lunga conversazione che tocca i tanti “misteri” della narrazione.
Nella tua carriera ti sei cimentato sia in creazioni originali che in riscritture. Quale rapporto intrattenere col “classico” se pensiamo alla scena di un teatro per i ragazzi?
Io ho bisogno di avere un rapporto continuo con i classici perché sono un nutrimento fondamentale. Passo molto tempo a studiarli e a riprodurre un rapporto, mi auguro sano, di riscrittura. Recentemente ho adattato un Misantropo e da poco anche un Riccardo III con Enzo Vetrano e Stefano Randisi che debutterà a ottobre. Si tratta di due operazioni molto diverse: da una parte il Misantropo vede otto attori in scena e i personaggi sono proprio quelli di Molière, anche se il testo è dimezzato; Riccardo III, invece, vede in scena tre attori soltanto che interpretano tutte le parti, la struttura dunque ne esce radicalmente sconvolta. Si tratta di un confronto utilissimo, non smetto mai di imparare dai classici. Poi, però, credo sia giusto che ci sia lo spazio per la creazione: compagnie, organizzatori teatrali, io stesso, tutti insomma dovremmo trovare il coraggio per rischiare di più e realizzare testi completamente nuovi. Mi sembra che lo spazio per questo tipo di operazioni sia sempre più piccolo e penso davvero si tratti di un grave errore del teatro italiano. Ripeto: i classici sono fondamentali poi, però, occorre avere il coraggio di lasciarli, altrimenti il rischio è di andare sempre di più verso una cultura meramente “archeologica”, verso una cultura morta. Sono stato pochi mesi fa a Valencia e il cartellone del teatro nazionale indicava un solo classico e otto testi nuovi… in Italia il rapporto è praticamente invertito!
In che modo chi si occupa di teatro ragazzi dovrebbe relazionarsi con il proprio destinatario?
Per quanto mi riguarda devo capire prima di tutto a quale fascia d’età mi sto rivolgendo. Pochi giorni fa ho finito di scrivere un testo per bambini dai tre ai cinque anni (Il piccolo Aron e il Signore del Bosco, per Alcantara teatro). La lingua cambia completamente e così il ritmo, il tempo, la quantità di parole. Nella mia carriera, poi, ho avuto anche delle bellissime sorprese a posteriori, per cui magari ho scoperto che uno spettacolo nato per ragazzi dai dodici anni in su lo potevamo fare anche per i più piccoli, oppure che spettacoli per gli otto-dieci anni potevano essere tranquillamente presentati a bambini di sei o addirittura di cinque anni. È anche vero che oltre a questo, che è importante e determinante per il teatro dell’infanzia, esistono una serie di componenti come la poesia, il divertimento, il batticuore, che si mescolano fra loro e vanno al di là di qualunque distinzione d’età. Ma allo stesso tempo è chiaro che il modo di divertirsi per un bambino di quattro anni o per uno di dodici non è lo stesso, per cui risulta indispensabile prestarvi una grande attenzione e un grandissimo rispetto. Sono sfumature e diversità stimolanti. Nel corso degli anni ho lavorato nelle situazioni più disparate e considero questo fatto una grande fortuna: sono passato dal monologo con il grande attore per il pubblico serale al confronto con il bambino di cinque anni. Non ho una compagnia mia, ma lavoro con differenti gruppi e artisti e questo mi diverte molto, come pure cambiare continuamente il tipo di pubblico.
Come conoscere dunque i diversi referenti? Esistono pratiche laboratoriali, specifiche modalità di osservazione?
Io cerco di mettermi “dentro” gli occhi dello spettatore, che sia un bambino di cinque di otto o di dodici anni o un signore di settanta, e cerco di assumere quel punto di vista; è ovvio che quando lavori per l’infanzia tale operazione diventi maggiormente specifica. Anni fa ho sentito Sanchis Sinisterra dire una cosa che mi piacque moltissimo: «Ho scritto sessanta testi e mi dicono che sembrano scritti da sessanta autori diversi». Mi piace poterlo pensare anche di me, cioè di poter essere quasi un autore invisibile, diventare quel particolare pubblico, quell’attore, quella compagnia, quel linguaggio particolari. Si tratta di trasformarsi in qualcun altro ed è una “schizofrenia sana” per questo mestiere, perché mi permette di vivere molte vite e di divertirmi come un bambino che gioca: ripeto, lo considero una fortuna, un privilegio. Il mio bambino preferito è un bambino di otto anni, quella è forse la mia età “ideale”. Devo però diventare quel bambino, poi cerco di capire se devo farmi un po’ più piccolo o crescere un po’ di più, ma l’importante è assumere quegli occhi, la lingua che parla lui, che diverte lui. Mi sento un po’ un sarto, un po’ un cuoco: devo capire gli ingredienti che ci sono, cucire addosso agli attori un particolare vestito e poi mediare tra i miei desideri e i desideri del pubblico. Mi piace il teatro perché necessita di una collaborazione costante. Non ho mai pensato di dover imporre il mio punto di vista, cerco invece di fare in modo che tutti facciano un passo l’uno verso l’altro, portando gradualmente gli attori, i registi, gli scenografi e infine gli spettatori a vedere il “film” che io mi sono già fatto nella testa e “trasmetterlo” anche nella testa degli altri. È sempre una questione di occhi che devono scambiarsi.
Hai menzionato la questione del “comico”. Esistono secondo te dei paletti da non oltrepassare quando si usa la comicità con i ragazzi?
Confini invalicabili preferisco non metterli. Ciò che a me non interessa è il comico facile, quello della parolaccia, legato alla volgarità. Penso ci siano diverse qualità del comico. Ad esempio, in questi giorni ho dovuto scrivere per bambini molto piccoli e so che questa storia ha una grossa componente di comicità legata alla tenerezza. Ha come protagonista un bambino di cinque anni e quattro animali con i quali lui ha un rapporto quotidiano e le prime volte in cui ho provato a leggerla ho visto e sentito nelle persone attivarsi una comicità “piccola”, che tende più al sorriso che alla risata, qualcosa – ripeto – di intimamente legato alla tenerezza. Al contrario, un paio di anni fa ho realizzato uno spettacolo con Flavio Albanese che si chiama L’universo è un materasso, per ragazzi di dieci e dodici anni, sulla storia dell’universo, partendo da Esiodo e arrivando fino alla fisica quantistica. Si tratta di uno spettacolo diviso in quattro capitoli, molto diversi fra loro e tutti con una loro specifica comicità. Quando si racconta della Teogonia gli dèi ne combinano di tutti i colori, creando una sensazione di ridicolo. Oppure nell’ultima parte va in scena un dialogo che vede un giovane e imbarazzato Einstein spiegare a Crono, il Tempo, che il tempo non esiste! Qui la comicità è molto più surreale.
Come nasce Digiunando davanti al mare?
Questo spettacolo è nato in seguito a un laboratorio di narrazione tenutosi a Mola di Bari, in cui chiesi a Giuseppe Semeraro di partecipare. Era la prima volta che provavamo a lavorare insieme. Qualche giorno di lavoro mi è servito per capire che l’attitudine di Giuseppe fosse molto più legata alla pratica attoriale, che a quella del narratore. Per questo dall’idea originaria di una narrazione sono passato a quella di un racconto in cui avrebbero dialogato due personaggi: uno doveva essere inevitabilmente Danilo Dolci, che venendo dal nord avrebbe parlato in italiano. Il suo personaggio è caratterizzato da una “fermezza dolce” e ho creduto che per le corde recitative di Giuseppe ci volesse anche un personaggio siciliano, così ho inventato Zimbrogi. Il fatto che Giuseppe parlasse il dialetto salentino, abbastanza imparentato con i dialetti siciliani, lo avrebbe facilitato. Quella di Zimbrogi è un’invenzione parzialmente basata sulla realtà perché fra le persone che Dolci aveva intorno c’era anche un pastore esperto di stelle e di animali. Ho messo insieme le testimonianze di altri personaggi siciliani che Dolci conosceva e in più alcuni elementi propri di questo Ambrogio che è diventato l’alter ego di Dolci. Zimbrogi ha dieci anni in più di Dolci, ma presto si accorgono che questa differenza non li divide, anzi, diventano presto amici: Ambrogio è un ventisettenne con la prigione alle spalle, il riformatorio, una vita difficilissima ed è quasi analfabeta, per cui è un ragazzino quasi quanto Danilo che, da parte sua, capirà di aver bisogno anche di quel punto di vista per comprendere la terra in cui decide di fare attivismo, mentre Zimbrogi si innamora della capacità di Danilo di sognare le cose e farle esistere. Lo capisce in maniera viscerale e questa presa di coscienza diventa un po’ il fulcro dello spettacolo. Ci sono dunque brevi momenti di narrazione, mentre ho scelto di costruire le parole di Danilo partendo dagli atti del processo che lo ha visto come imputato. Questi atti sono poetici nelle parti in cui Danilo parla, incredibili e surreali quando parla l’accusa, infine molto intensi e sentiti quando a esprimersi è la difesa: Pietro Calamandrei era l’avvocato di Dolci. Un po’ alla volta è venuto fuori il testo dello spettacolo, che a volte è un dialogo altre volta consiste in una serie di veri e propri monologhi idealmente rivolti a un terzo personaggio che non c’è e che è il giudice che condannerà i due personaggi. L’altra cosa che mi sembrava indispensabile era mantenere una chiave che non fosse seriosa ma per una situazione così surreale e grottesca ho pensato di rendere tutto tragicamente comico. Basta pensare al carabiniere che fa sfollare i manifestanti radunati sulla spiaggia dicendo che è vietato stare in molti sulla spiaggia e che è vietato digiunare. “Magari!”, risponde Zimbrogi. Si tratta appunto di episodi tragici che diventano comici, poiché rivelano il paradosso di una giustizia italiana incapace di difendere chi subisce, tanto da considerare i più poveri alla stregua di “banditi”. È il paradosso dei paradossi.
Lo spettacolo è nato da subito con un destinatario preciso?
È nato per gli adulti, poi ci siamo accorti che per le scuole superiori funzionava molto bene. La risposta è emotivamente forte, probabilmente anche perché si raccontano cose dure però, come dicevo, con una vena comica e poetica. La capacità di Danilo Dolci, che era anche un poeta, è proprio quella di riuscire a mettere in atto gesti provocatori con grande delicatezza e grande poesia, pensiamo solo al fatto di ascoltare Bach durante una manifestazione in spiaggia… Oppure quando dice ai manifestanti: “non portate i coltelli altrimenti ci accuseranno di essere armati! Spezzeremo il pane con le mani…”. Possono sembrare degli enunciati banali ma in realtà racchiudono un affascinante potenziale evangelico.
In effetti il racconto di Danilo Dolci si avvicina parecchio alla fiaba. Quanto c’è nella storia umana di fiabesco e quanto invece le fiabe dicono rispetto alla nostra storia?
Credo che tutto questo poi stia negli occhi delle persone. Io sono molto legato all’idea di uno sguardo incantato e meravigliato. Quella che ritengo una mia grande fortuna è che continuo a vivere la meraviglia di fronte alle cose e credo che sia questo a rendere meraviglioso il racconto. Dunque se c’è alla base uno sguardo “meravigliato”, ecco che in qualsiasi vicenda la componente fiabesca viene esaltata, viene fuori. A volte anche passando dal cinismo, dalla durezza, perché sono convinto che occorra sempre mantenere una forbice aperta fra tragico e comico, cinico e sentimentale, tra la capacità di essere assolutamente freddo oppure fortemente emozionale. L’obiettivo resta comunque quello di trasmettere allo spettatore questo incanto, questa meraviglia, anche solo per un momento. Un attore da solo sul palco che racconta senza altri strumenti che non siano il suo corpo e la sua voce, deve aver dentro di sé la meraviglia. E deve avere così chiara la visione di quello stupore da diventare visionario col suo stesso corpo e con le sue stesse parole, in modo da restituirla a chi ha davanti, perché in mezzo fra lui e il pubblico non c’è niente. Sbaglia il narratore che pensa possa aiutare servirsi di uno schermo, immagini o video: si rischia al contrario di indebolire la visione. Ecco, la trasmissione della meraviglia è il meraviglioso segreto della narrazione. È ciò che chiamo, senza paura di sembrare retorico, “batticuore”: far uscire lo spettatore con un battito cardiaco lievemente più alto di quando era entrato. Se accade questa cosa, vuol dire che sono riuscito a far emergere almeno in una certa misura la fiaba, qualunque cosa io stia raccontando.
La meraviglia come segreto del “tout public”, anche?
Anni fa in Francia, lavoravo su un Mahābhārata con il marionettista Massimo Schuster e oltre a realizzare una versione con le marionette ne abbiamo fatta anche una “in narrazione”. La prima volta che l’abbiamo portato in Italia, a Prato, era estate e ci siamo trovati incredibilmente davanti a un pubblico composto nella sua maggioranza da bambini. Lo spettacolo trattava una storia complessa, ambiziosa, difficile come è il Mahābhārata con nomi complicati per i bambini italiani. Eppure ne sono rimasti incantati, come quando racconti loro vecchie fiabe italiane ben note. Quando le corde risuonano fra le nostre vite e quello che ci viene raccontato, oppure fra quello che ci viene raccontato e quello che, anche se non ne siamo pienamente consapevoli, sta radicato dentro i millenni sui quali noi cresciamo, il racconto tiene. Però non si può usare sempre la stessa formula ed è bello poter variare ogni volta lo schema, porsi delle scommesse più complicate, più ardite. Altre volte capisci che devi stare in una semplicità assoluta. Devi decidere ogni volta e non c’è una risposta fissa che vale per tutto. Una cosa che serve è un’applicazione lenta, costante e umile, studiare tanto e avere umilmente il coraggio e la fiducia di mettersi nelle mani l’uno dell’altro (drammaturgo, regista, attore…). Ma soprattutto avere la serenità anche di poter sbagliare: la scienza si basa sull’errore, dobbiamo poter sbagliare e sapere scartare per tempo tutto quello che non funziona. Con Luigi d’Elia lo dico sempre: il primo spettacolo che abbiamo fatto è stato un disastro e lo ricordo con felicità perché quel disastro ci ha permesso di conoscerci, di capirci, di far nascere un’amicizia e di capire che la strada che dovevamo percorrere era completamente diversa da quella da cui eravamo partiti. Per cui evviva quel disastro, senza di esso non ci sarebbe stata la progressiva conoscenza e l’enorme fiducia che poi è nata e che ci porta l’anno prossimo a festeggiare un decennio di spettacoli. Ogni giorno che Luigi ed io passiamo a teatro è perché siamo felici di farlo, ci sentiamo allegri, ridiamo. E la vita ci sembra più bella.