Nelle serpentine dita del Male
di Marcantonio Lucidi
Questo articolo è stato pubblicato su marcantonioluciditeatro.it domenica 12 febbraio 2020
Lo spettacolo di Enzo Vetrano e Stefano Randisi al Palladium di Roma, da loro diretto e interpretato non si intitola Riccardo III, in cifre romane, ma Riccardo 3 in cifre arabe, tre, quanti sono gli attori in scena: i due protagonisti e Giovanni Moschella. Portano in scena una drammaturgia contemporanea, costruita da Francesco Niccolini a partire dalla tragedia shakespeariana e dalla storia vera di Jean-Claude Romand, pluriomicida francese nato nel 1954, condannato all’ergastolo nel 1996, in libertà vigilata dall’anno scorso.
L’affaire Romand, famosa in Francia, si svolse a Prévessin-Moëns, villaggio di ottomila abitanti dell’Ain, dipartimento della Francia orientale fra il Giura e il Monte Bianco, ai confini con la Svizzera. Il 9 gennaio 1993 Jean-Claude Romand con un mattarello ammazza nella camera matrimoniale la moglie; poi prende una carabina 22 long rifle con silenziatore, uccide la figlia di sette anni e il figlio di cinque. Spiccia casa, sbriga la posta, va in paese a comprare i giornali e guarda un po’ di televisione. Si reca a pranzo dai suoi genitori, mangia e fa fuori loro e il labrador. Sale in macchina e parte per Parigi a passare la serata con la sua amante, Chantal, una dentista a cui deve 900mila franchi (circa 140mila euro). Le promette di portarla a mangiare a casa del suo millantato amico Bernard Kouchner, fondatore di Médecins sans frontières, ma tenta di ucciderla nella foresta di Fontainebleau. Lei lo supplica e lui la risparmia. Torna a casa, si mette in pigiama, alle quattro del mattino dà fuoco al granaio, al cadavere della moglie e al letto dei bambini e inghiotte dei barbiturici scaduti da dieci anni. Ma sono le quattro del mattino, passano gli addetti della nettezza urbana, vedono l’incendio e chiamano i pompieri che lo salvano. A Roma sarebbe morto perché a quell’ora di notte la nettezza urbana in città non passa mai.
La strage era dovuta al fatto che Romand per anni aveva dato a intendere di essersi laureato in medicina e di lavorare nientemeno che all’Organizzazione mondiale della sanità. Non era vero niente, passava le sue giornate nei parcheggi di autostrada vicino al lago Lemano. Inoltre viveva di piccoli imbrogli e di debiti contratti nel giro dei suoi familiari, amici, amanti. Siccome la bugia, sinonimo di candela oltreché di menzogna, era arrivata al moccolo, Romand decise di ammazzare tutti.
Su questa truculenta storia, lo scrittore, sceneggiatore e regista francese Emmanuel Carrère scrisse nel 2000 un racconto “non fiction” – come lo ha definito – con il titolo di L’avversario, che è il sottotitolo di questo Riccardo 3. Nello spettacolo si trova, del pluriomicida, ufficialmente poco o nulla. Romand rappresenta piuttosto una traccia sotterranea utile alla determinazione del cattivo per eccellenza, Riccardo III, gobbo, zoppo, deforme, monco, “plasmato da rozzi stampi”. È un pantografo che serve a tracciare la figura del personaggio shakespeariano su una scala diversa, adatta al piano drammaturgico scelto da Niccolini che ha pur sempre come suo sostegno la famosa proposizione del protagonista: “Ho deciso di fare il delinquente”. Ma non è il Riccardo III della quattrocentesca Guerra delle due rose evocata da Shakespeare, è invece un soggetto manicomiale che sta in una specie di camera di clinica biancastra e verdognola, un lettino, l’armadietto dei farmaci e delle siringhe, alcune file di teschi, un paio di sedie da sala infermieristica. Forse è un manicomio criminale, non serve dichiararlo, è dove s’immagina che stia un tipo come Romand e c’è una sedia a rotelle che equivale alla zoppia di Riccardo.
Date le premesse, si potrebbe sospettare che (ancora una volta) un autore contemporaneo si sia messo a pasticciare con l’originale per fare vedere che è bravo ad alzare le mani su Shakespeare. Invece non s’uscirà di sala con la voglia di telefonare a San Genesio protettore dei teatranti per indurlo a dirottare altrove i suoi buoni uffici: l’operazione funziona in primo luogo perché si racconta effettivamente la storia di Riccardo III, ossia come notava una spettatrice alla fine dello spettacolo “si capisce tutto”; poi perché la giustificazione alla manipolazione e alla modernizzazione è evidente e sta nel taglio a misura di Vetrano e Randisi di tutto lo spettacolo. Non è un’operazione di regia, lo sbotto megalomane d’un qualunque garbuglione della messinscena. È un’operazione d’attori, di attori poetici e di forte attitudine teatrale. Si muovono tutt’e due emanando un senso di facilità e di scioltezza, di semplicità e naturalezza proprie di chi ha una mente designata alla scena e disegnata per l’interpretazione. Anche quando spingono, quando proprio vanno di tecnica, non si vede mai il funzionamento della macchina attorale (come avrebbe detto Carmelo Bene) ma solo il risultato interpretativo. Vetrano che fa Riccardo muove le sue mani sottili, irrequiete, innervosite da un anello come piccoli repellenti artigli del Male, scivolose, serpentine, prelatizie. Al momento della sconfitta, della grande paura, trascina il suo personaggio per terra, lo fa rotolare, gemere, piagnucolare, strillacchiare, dovrebbe cadere nell’esagerazione ed invece arriva a tendere la situazione fino a rendere l’angoscia del momento quasi densa nell’aria, palpabile allo spettatore.
Stefano Randisi s’occupa di restituire Lady Anna, un sicario, il duca di Clarence, Buckingham, il conte di Richmond. E riesce in una prova insolita, dichiaratamente antitrasformistica, restando sempre uno eppure riuscendo a essere tutti i personaggi, con un breve gesto, una variazione tonale, un cambio di ritmo.
I due artisti hanno un modo di stare in scena che sembra una dichiarazione estetica in tempi in cui gli attori, al cinema e al teatro, devono per il gusto della dittatura naturalistica dominante assicurare capacità imitative non da interpretazione ma da clonazione. E verrà il tempo in cui oltre al cavaliere dovranno simulare anche il cavallo.
A Giovanni Moschella sono affidati gli altri personaggi, lord Hastings, Elisabetta, Margherita, il Lord Mayor di Londra, Lord Stanley, un secondo sicario. E a stare in scena assieme a Vetrano e Randisi ci vuole coraggio, forse una certa sicurezza nei propri mezzi. Ma Moschella è chiaramente dei loro, è della stessa specie di teatrante. Il Riccardo III finisce malissimo ma lo spettacolo si chiude benissimo.