Riccardo III si fa in tre (attori). E il suo cavallo è l’eutanasia
di Enrico Fiore
Questo articolo è stato pubblicato su controscena il 24 ottobre 2018
BOLOGNA – Tre segnali precisi indicano quanto sia interessante, e soprattutto fondata, la rielaborazione del «Riccardo III» shakespeariano che – su testo di Francesco Niccolini e per la regia di Enzo Vetrano e Stefano Randisi – è stata presentata all’Arena del Sole come prima produzione di Emilia Romagna Teatro per la stagione 2018-’19. Li elenco qui di seguito in ordine crescente d’importanza.
1) Il titolo («Riccardo3») strappa il celeberrimo personaggio protagonista all’aulica individualità conferitagli dall’albero genealogico regale per confinarlo nell’anonimato della condizione di recluso che riduce l’individuo a un semplice numero. Infatti, la scena di Mela Dell’Erba, in cui dominano il bianco e il verde acido, allude palesemente a un ospedale psichiatrico o a un manicomio criminale.
2) Il sottotitolo («L’avversario») riprende il titolo del romanzo di Emmanuel Carrère ispirato alla vicenda di Jean-Claude Romand, che il 9 gennaio del 1993 uccise i genitori, la moglie e i due figli. Sicché non a caso l’epigrafe del testo di Niccolini recita: «Ha assassinato la moglie. / Ha assassinato il fratello. / I figli del fratello. / Gli amici. / I nemici. / E non è Riccardo III di Gloucester».
3) L’attore che interpreta Riccardo interagisce con due suoi colleghi che – spingendo il mestiere fino a un virtuosismo parossistico – interpretano tutti gli altri personaggi, compresi quelli femminili. E in ciò si pongono come un eclatante specchio di Romand, che raccoglieva danaro per l’appunto recitando, ad esempio spacciandosi per ricercatore presso l’OMS e fingendo d’essere affetto da un linfoma.
Ripeto, siamo di fronte a una rilettura interessante e fondata. E per dimostrarlo parto ancora una volta dalla splendida definizione che di Riccardo III diede Jan Kott: «Riccardo è impersonale come la storia. Mette in moto il rullo compressore della storia, dopodiché il rullo lo stritola. Riccardo non è neanche crudele. Non rientra in nessuno schema psicologico. È la storia pura. Uno dei suoi capitoli ricorrenti. Non ha volto».
Pensiamoci un attimo. Se Riccardo non ha che il volto che gli attribuisce il Potere (o, appunto, la Storia), vuol dire che si limita a recitare una parte; ed è, dunque, un attore. Così, infatti, lo interpretò il grande regista polacco Woszczevowicz, quando nell’inverno del 1960 lo portò in scena all’Ateneum di Varsavia, per giunta connotandolo con strenue e dichiarate movenze comiche.
Occorre, d’altronde, badare alla battuta, in tal senso decisamente inequivocabile, che Shakespeare gli mette in bocca proprio all’inizio, nella prima scena del primo atto: «Non conosco altro piacere, per ingannare il tempo, che sbirciare la mia ombra al sole e intonar variazioni sulla mia deformità». E del resto è ben presente, in questo dramma, il tema del «teatro nel teatro»: basta considerare, in proposito, il suo impianto da tragedia classica mutuato da Seneca e attraversato dalla costante influenza di Marlowe o, sul piano del contingente, la circostanza che il ruolo di Riccardo fu probabilmente tagliato su misura per Dick Burbage, primattore e ragazzo-ragazza di Shakespeare, così come giusto Marlowe fece con i suoi personaggi nei confronti di Edward Alleyn.
Ma, poiché l’attore è per sua natura il tramite neutro fra l’occasionalità (la messinscena) e qualcosa (il testo) che sta prima e fuori di lui, ecco che salta subito agli occhi, lampante, la sua vicinanza al paziente psichiatrico, che sconta, in una tormentosa «innocenza», per l’appunto lo scarto e lo scontro fra la propria quotidianità in sé finita e le mille voci – tanto confuse quanto assillanti – che gli arrivano da un altrove. Lo disse pure un attore del calibro di Vittorio Gassman: «Recitare non è molto diverso da una malattia mentale: un attore non fa altro che ripartire la propria persona con altre. È una specie di schizofrenia».
Ebbene, di tutto quanto sopra il testo di Niccolini rende ragione in modo assolutamente indiscutibile. E al riguardo mi limito a tre esempi. Nella seconda scena del primo atto Riccardo, riferendosi a Lady Anna, sostiene di avere dalla sua, insieme con il demonio, i propri «sguardi d’attore», mentre Shakespeare parla unicamente di «sguardi simulatori». Nella quarta scena del quarto atto Riccardo dice alla regina Elisabetta: «Che pessima attrice tragica, e quanto sei noiosa!», mentre nel testo di Shakespeare l’insulto suona: «Arrendevole sciocca, donna superficiale e mutevole!». E infine, nella quinta scena del terzo atto, a Riccardo, che gli ha chiesto se sappia «tremare e mutar di colore in preda alla commozione e allo sdegno», Buckingham risponde: «Avete dei dubbi? Io nasco come attore tragico», laddove Shakespeare fa dire a Buckingham appena: «Io so contraffare il grave attore tragico».
Inutile aggiungere, poi, che spunti di lieve ironia o di schietta comicità arrivano a precisare ulteriormente un simile quadro. E qui bastano i due esempi seguenti. Nella terza scena del primo atto si svolge fra Riccardo e la regina Margherita una pantomima (Margherita: «Oscena vergogna del ventre gravido di tua madre…» – Riccardo: «Margherita!» – Margherita: «Lasciami finire!» – Riccardo: «Prego») che, ovviamente, in Shakespeare non c’è. E nella quarta scena del terzo atto, mentre nel testo originale Riccardo, riferendosi ad Hastings, dice: «Gli si mozzi il capo! ora io lo giuro per San Paolo, io non desinerò finché io non lo veda mozzo!», nella riscrittura di Niccolini, parlando direttamente ad Hastings, sbotta: «Voglio la tua testa! Giuro che non andrò a mangiare finché non la vedrò in un vassoio!». Col che, come vediamo, addirittura ci si spinge, nel solco dello straniamento comico, a imparentare Riccardo III con la Salomé di Wilde.
Estrema, d’altra parte, è la coerenza con il testo dei segni e degli arredi che trapuntano la messinscena: vedi, poniamo, la sedia a rotelle su cui a tratti vengono costretti taluni dei personaggi, la barella sulla quale giace a lungo abbandonata la corona, la collezione di teschi nell’armadietto dei medicinali, la camicia di forza imposta alla regina Margherita, gli attori che indossano a vista gli elementi del costume che caratterizzano i loro rispettivi personaggi… E notevolissima, infine, risulta la prova offerta dagl’interpreti in campo.
Enzo Vetrano, infagottato in un lungo cappotto col collo di pelliccia, è persino impressionante per la varietà di toni e di espressioni con cui rende il corpo deforme e l’anima lacerata di Riccardo: s’inseguono e s’accavallano, nella sua recitazione, cadenze circospette, rabbiose, melliflue, grottesche, insinuanti, diplomatiche, velenose, nevrotiche e quant’altro si possa immaginare in riferimento alla capacità mimetica di un attore. E non minore, al riguardo, appare la bravura dispiegata da Stefano Randisi (Lady Anna, un sicario, Giorgio di Clarence, Buckingham, Edoardo e Richmond) e Giovanni Moschella (un altro sicario, Hastings, Elisabetta, il principino, Margherita, il sindaco di Londra e Stanley).
Il cerchio si chiude in maniera sorprendente ma, s’intende, in linea con le premesse e lo sviluppo dello spettacolo. Il cavallo invocato da Riccardo diventa l’eutanasia. Quando, nella scena conclusiva, gli chiede di ucciderlo, Richmond lo fa somministrandogli un’iniezione nel braccio. Perché, appunto, Riccardo non è Riccardo III di Gloucester, è solo un malato che implora la pietà d’essere liberato dal dolore.