L’ossessione per la foresta: Zanna Bianca di Niccolini/D’Elia

di Giancarlo Visitilli

Questo articolo è stato pubblicato su Mastica&Sputa il 29 ottobre 2018

L’ossessione della foresta, la sua irruenza, il suo impeto. Jack London.
D’Elia/Niccolini compongono una partitura per silenzi e orchestra, nel frattempo il crepitio dei ghiacciai che scricchiolano, la neve che si fa ruscello e ridesta la natura, gli uomini, gli unici a restare eternamente nel loro letargo che non prevede più belle stagioni.
In un’ora di grande magia l’interprete di questa nuova versione dell’opera di London si fa lui stesso distesa nevosa, foresta impenetrabile, lago, fiume, ghiaccio, riuscendo a sciogliere tutto ciò che era rimasto eterno dentro. E si piange, ci si commuove continuamente, si resta sospesi, come in un eterno viaggio in cui l’unica certezza è l’appartenenza al branco. Anche quando la solitudine costringe alle angherie dell’esistenza.
La restituzione dei luoghi, delle scene e delle creature (magnifiche e uniche, create dallo stesso Luigi D’Elia), ridestano il desiderio di rileggersi il capolavoro di London. I due registi ne restituiscono una credibilissima contestualizzazione, adattandola in una civiltà così antica e che ancora scriverà il futuro, specie in rapporto a una natura che mai più, forse e ahinoi, ritroveremo così intatta e pura al modo di come lo spettacolo ce ne restituisce l’immagine.
Quel che maggiormente convince del lavoro di D’Elia/Niccolini è la continua capacità di affidare al pubblico, bambino e non, un’armonia di suono, parola e tanti silenzi, che fluttuano continuamente in continui crescendo che, di volta in volta, si placano solo dentro le viscere del pubblico attonito, accerchiato, tenuto al calore di ghiacci perenni. Si tratta di emozioni che arrivano immediatamente in pancia, restituendo il loro lascito nei volti del pubblico che cambiano maschera continuamente, fra paura, desiderio di riuscita, tristezza, ma tutte in vista della ridente libertà.
Luigi D’Elia, come sempre, abituato a quel panismo tipico della poesia del suo teatro, ancora una volta qui si fa materia, carne, sangue, sudore. Natura. Affida il coraggio dell’ossessività del mondo selvaggio a un’energia che, continuamente, diventa vitale e contagiosa. Basti fare attenzione alla ‘sequenza’, perché di questo si tratta, durante la quale l’attore/lupo, ondeggia fra i venti glaciali del Nord, sorretto da una slitta che lo porterà verso le suggestive vie fitte di alberi che suonano archi, moog, fiati, elettronica, dai Sigur Rós, Ezio Bosso, passando per Richter. Degne di nota le luci che disegnano quello che nelle pagine London lascia costruire nell’interiorità dei suoi lettori. Si sprofonda nella natura selvaggia, si lotta per la sopravvivenza, si diventa foglia, vento, neve. Nella costante tensione che il raggio di sole, prima o poi, arriverà ad illuminare ciò che è nero, diverso dal bianco. Ma soprattutto a ridestare quel calore utile per rendere qualsiasi uomo docile come un lupo.