Il dramma si fa in tre prima di moltiplicarsi all'ennesima potenza
di Tommaso Chimenti
Questo articolo è stato pubblicato su recensito.net il 30 ottobre 2018
BOLOGNA – Negli ultimi anni, nel teatro italiano, sono state diverse le riscritture del “Riccardo III” shakespeariano, da quella monstre stile Famiglia Addams e zombie con zeppe ai piedi di Alessandro Gassmann a quella monologante e intimista, personalissima, di Michele Sinisi imbrattato di sangue. E cambia anche il lessico, la grammatica del titolo: fu “RIII” con il figlio di Vittorio, è, oggi, “Riccardo3” con questo nuovo tentativo, pienamente riuscito, di Francesco Niccolini per la regia e l'interpretazione di Vetrano-Randisi (prod. Ert + Arca Azzurra). Già perché quel numero, arabo e non romano, la dice lunga su quello che andremo ad esplorare. Tre come i personaggi, tre come un esponenziale moltiplicatore, alla terza, inteso come il piano della realtà, quello del testo seicentesco e quello della follia.
Questo Riccardo ha barlumi beckettiani, con la sedia a rotelle-trono che ci riporta a “Finale di partita”, come rimandi pirandelliani, più corposi e densi, pensando all'“Enrico IV”, mentre l'immagine nella locandina ritroviamo questi cappottoni (senza testa come si confà ad ogni Maria Antonietta) che subito ci conducono alle scene di Remondi & Caporossi. Riferimenti millimetrici, spaziature compatte, calibrature a piombo per un'opera pulita, coerente, ferrea senza essere rigida, con una sua anima e tempra, carattere e ferocia. Questo Riccardo ha abiti contemporanei, non siamo alla corte del sanguinario Re inglese ma all'interno di un ospedale psichiatrico. A guardar bene, a fare il conto, l'elenco oggettistico presenta undici finestre, due porte, una panchina, ci sono dieci teschi (come la squadra antagonista) in una teca, il fondale è verde come un prato e la piece dura 90 minuti. Siamo di fronte non tanto ad una partita di calcio, gli elementi elencati la descrivono formalmente, ma ad un play, ad un gioco, ad un'invenzione, ad una trasposizione del reale nel suo recinto di regole altre come dentro ad un match con un nemico-avversario.
Come se gli infermieri prendessero, di volta in volta, le sembianze di regine e scudieri, di ciambellani e consiglieri. Se la scena (di Mela Dell'Erba; pochi oggetti funzionali e simbolici e ben usati e uno spazio tutto da correre ed esplorare) è un dispositivo perfetto, esteticamente e cromaticamente (con le mura divise tra un bianco, in alto, e un verde acido, sotto, e la sedia a rotelle rosso sangue, la bandiera italiana, e la nostra situazione attuale, risalta colpendoci come un sonoro schiaffo), il suono, di graticole e sbarre che si chiudono ad ogni scena, è una ghigliottina che si abbatte furiosa a tagliare e sezionare, segmentare e tranciare, spezzare e dividere di netto con un rumore di spostamento d'aria da rabbrividire, le luci (di Max Mugnai) sono affilate e appuntite, precise e nette.
Enzo Vetrano (sempre più somigliante a Lindsay Kemp, ma con più tempra e tenacia) è il solo dei tre interpreti sulla scena ad impersonare un solo personaggio: è un Riccardo limaccioso e famelico ma anche ironico (fortunatamente ci sono stati risparmiati il braccio offeso o la gamba strascicata o la gobba, che sarebbero stati inutilmente naturalistici) al quale Vetrano, con tormento, ansia e tic, dona intensità, insistenza, convinzione, una statura da stratega, e monologhi tremanti, sconvolti dagli incubi, come quella volgarità sboccata, quel livore bestiale e scurrile che ce lo fa apparire quotidiano, fresco di periferia, simpatica canaglia da slang. Parteggiamo anche per la sua lucida follia, per il suo architettare la morte contro la morte, aggrovigliato nel suo gioco senza fine, nel suo pozzo senza fondo di odio, di omicidi (in alcuni dialoghi del Bardo sembra di risentire la veemenza barbara del caso Cucchi, le torture subite da Giulio Regeni o le intercettazioni del recente complotto Khashoggi), di astio nei confronti di tutto quello che gli si muove attorno, di tutto ciò che è vivo e sano.