A Brindisi, respirando di nuovo l'odore del palco
di Michele Di Donato
Questo articolo è stato pubblicato su Il Pickwick il 25 marzo 2021
Avevamo a quanto pare una data, fittizia e farlocca, in cui avrebbero dovuto riaprire i teatri; ma quella data, fissata per il 27 marzo, è stata, sin dal momento stesso della sua promulgazione, un illusorio specchietto per le allodole, che sapevamo già in partenza avrebbe rappresentato – nella migliore e più ottimistica delle ipotesi – un punto di ripartenza più simbolico che effettivo.
Sicché, ora che detta riapertura è stata messa ulteriormente in discussione dai parametri cangianti all’ombra dei quali continua a consumarsi la stasi di un intero comparto, pare difficile essere sia sorpresi che delusi; si può solo ribadire quanto fosse fittizia e farlocca quella data offerta con un ottimismo tanto superficiale quanto sospetto, sì da suggerire il dubbio che fosse un furbo ammiccamento per calmierare il settore.
E quindi...
I teatri non riapriranno al pubblico: non si alzeranno sipari, non si riempiranno platee, gli attori non calcheranno di nuovo le tavole dei palchi e noi non torneremo a occupare il nostro posto acquattati nel buio della sala e con gli occhi puntati verso le luci che riverberano dal proscenio. O almeno così pare, così si vocifera, così si ventila, e così è assolutamente probabile che effettivamente sia, tra protocolli stringenti e restrizioni ulteriori. Ma tant’è. Evitando di entrare eccessivamente nel merito di una questione troppo scivolosa per essere risolta con una semplificatoria logica binaria del sì o no, quel che mi preme sottolineare in esergo a quest’articolo è prima di tutto un dettaglio emotivo, ovvero la sensazione assaporata di poter nuovamente sedere in platea a quattro mesi e mezzo di distanza dall’ultima chiusura di sipario a cui s’era potuto assistere in presenza (correva la fine d’ottobre del nefasto 2020).
Come è stato possibile? Preveniamo subito dubbi di illiceità della cosa: si è potuto assistere in presenza, insieme a pochi addetti ai lavori, a una prova aperta di uno spettacolo in via di allestimento e che nel frattempo viene registrato per essere trasmesso, in audio o in video, attraverso cioè quei soli modi in cui è attualmente possibile la fruizione di un oggetto teatrale.
L’occasione è coincisa con un evento particolare, la ricorrenza del trentennale dello sbarco, nella città di Brindisi, di oltre ventimila albanesi in fuga dal proprio Paese ridotto allo sbando e alla fame. Una città che si trovò impreparata e per giunta lasciata sola da uno Stato centrale assente nel fronteggiare una situazione emergenziale, alla quale i brindisini seppero reagire all’insegna della spontanea solidarietà e di quel (sempre meno, ahinoi) naturale impulso umano a tendere una mano verso chi chiede aiuto. Era il 7 marzo del 1991 e navi, pescherecci, imbarcazioni di fortuna, carrette del mare di variegata stazza e sistematico sovraccarico, raggiungevano a ciclo continuo le coste brindisine; negli occhi di noi spettatori distanti nel tempo e nello spazio sono rimaste le immagini della nave Vlora, stipata di corpi oltre l’inverosimile, che cinque mesi dopo, nell’agosto assolato di quello stesso anno, avrebbe svuotato il suo carico di gente d’Albania nel porto di Bari, uomini, donne e bambini che di lì a poco sarebbero finiti reclusi nel vecchio Stadio della Vittoria. E di Brindisi? Chi se ne ricorda? Quali immagini sono rimaste nella memoria dei nostri archivi visivi? Poche, decisamente poche. Per molti di noi, nessuna.
Eppure, mentre la primavera di quel 1991 era alle porte e col vento freddo vibravano folate degli ultimi sussulti d’inverno, accadeva a Brindisi qualcosa che sarebbe stato destinato a restare nella memoria condivisa di una città e della sua gente. Erano anni di profondi rivolgimenti politici in un’Europa la cui geografia politica stava repentinamente cambiando: nell’89 a Berlino era caduto il Muro, l’Unione Sovietica si stava dissolvendo a colpi di perestrojka e glasnost’, la cortina di ferro stava inesorabilmente allargando le sue maglie, in Romania cadeva il regime di Ceausescu, la Cecoslovacchia si divideva in Repubblica Ceca e Slovacchia e, mentre nella parte alta dei Balcani si preparava a deflagrare il conflitto che avrebbe dilaniato quella che all’epoca era ancora la Jugoslavia, l’Albania pativa le nefaste conseguenze della quarantennale dittatura di Enver Hoxha sotto l’egida del suo successore designato Ramiz Alia. E, come in ogni fase di transizione epocale, in quello scorcio a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 del ‘900 si registrò un esodo di massa, una fuga dalle condizioni di povertà perduranti per andare all’inseguimento del miraggio di un benessere percepito e immaginato: in Albania in quegli anni si poteva vedere – per lo più clandestinamente, orientando di nascosto le antenne verso occidente – la televisione italiana, dalla quale, prima che scoppiasse Tangentopoli col suo corollario di conseguenze politiche, s’irradiava un’immagine di prosperità fatta di Milano da bere e ragazze fast-food, di rampantismo craxiano di nostra produzione e edonismo reaganiano d’importazione. L’Italia quindi era per gli albanesi la terra promessa e la Puglia rappresentava la porta d’ingresso più vicina, bastando attraversare un pezzo d’Adriatico per raggiungerla, per rendere tangibile quel miraggio a portata di sbarco.
E così fu. Brindisi fu la meta di migliaia di albanesi che la raggiunsero in poche ore; furono oltre ventimila in tre giorni. Brindisi che viveva a sua volta una fase di sofferenza economica e occupazionale, sospesa tra l’industrializzazione forzosa avviata nei decenni precedenti e la crisi del settore (soprattutto petrolchimico) intervenuta nell’ultimo ventennio del ‘900.
La Brindisi del 1991 era una città in difficoltà, in ginocchio tra inquinamento e contrabbando. E, in un marzo di trenta anni dopo, Brindisi è una città, cambiata come cambiano i tempi, che si ritrova a vivere in occasione di questi giorni un fermento fiero e pacato che l’emergenza pandemica riesce solo in parte a raffrenare: il ricordo di quanto accaduto trent’anni addietro è forte e si percepisce come nella popolazione brindisina sia presente come il segno di un passato che ancora gonfia il petto di un orgoglio profondamente umano. Un orgoglio discreto, esemplificativamente incarnato dalla figura dell’allora sindaco Pino Marchionna, il quale nei giorni dell’emergenza sfruttò tutti i canali comunicativi allora a disposizione (radio e tivvù) per veicolare un messaggio semplice, diretto ed essenziale, esortando i propri concittadini a esercitare verso migliaia di albanesi che arrivavano dal mare il valore della solidarietà e a non ascoltare il demone del pregiudizio: “Faccio questo appello a tutti i brindisini. Vi prego di non avere paura delle persone che sono sbarcate a Brindisi. Hanno solo fame e freddo. Se potete aiutarli, fatelo e vedrete che vi saranno riconoscenti”, queste le parole con cui un giovane sindaco fece la sua parte incentivando l’accoglienza, ricordando alla sua città che l’uomo all’uomo è fratello. Queste le parole che una città fece proprie, accogliendo, sfamando, dando ricovero a gente partita con addosso l’unico vestito e con in tasca solo tanta speranza.
Lo ritroviamo, Marchionna, presente alle celebrazioni della mattina del 6 marzo, sul lungomare prospiciente la scalinata virgiliana, quella sormontata dalle colonne che segnavano la fine della Via Appia; come a voler sancire anche simbolicamente un ponte tra culture, oltre che tra presente e passato, è lì che si ritrovano le autorità per le celebrazioni istituzionali del trentennale dello sbarco: oltre al già citato Marchionna, l’attuale sindaco di Brindisi Riccardo Rossi, il Presidente albanese Edi Rama, il Governatore regionale Michele Emiliano. E non è certo un caso che a colpirci più di ogni altra cosa sono proprio le parole di Pino Marchionna, che nel suo intervento fa cenno alla vexata quaestio del mancato conferimento alla città di Brindisi della medaglia d’oro al valore civile, per un merito non ancora ufficialmente riconosciuto: questione alla quale Marchionna propone di “mettere la sordina”, ritenendola non fondamentale; e c’è, nella dignità di quelle parole, nella carismatica pacatezza con cui vengono proferite, tutto il senso e tutto il valore di quell’autentico sentire che all’apparenza di mostrine appuntate sul petto, preferisce la più intima sostanza di medaglie scolpite nel cuore.
Ed è con questo viatico che ci indirizziamo poi nel pomeriggio ad assistere allo spettacolo di Luigi D’Elia, che ripropone in forma di lettura scenica l’oratorio scritto dieci anni fa da Francesco Niccolini e ricalibrato in questa versione coi musicisti dal vivo.
Ci accingiamo a fare il nostro ritorno a teatro interrogandoci anche sul senso della visione e (soprattutto) della recensione di qualcosa a cui al momento il pubblico non potrà assistere, se non in video e in audio, attraverso uno schermo o una radio; e il senso risiede probabilmente nello scatto fideistico con cui ci proiettiamo verso il futuro, verso il tempo in cui a teatro si tornerà in maniera canonica; quando il pubblico tornerà ad essere pubblico e, magari, anche lettore di articoli e recensioni. Noi, intanto, ci portiamo avanti col lavoro, provando a lasciare ai lettori di oggi e agli spettatori di domani, traccia testimoniale di quanto veduto. E ne approfittiamo per riassaporare l’odore del palco, per provare nuovamente quelle sensazioni che quasi stavamo dimenticando. E scopriamo, con un pizzico di sorpresa, che ci fa un effetto straniante entrare nel Teatro Verdi di Brindisi. Manufatto enorme, in pieno centro cittadino, eretto a partire dal 1964 su progetto di Enrico Nespega e inaugurato solo nel 2006, il Verdi ha la particolarità di stagliarsi “sospeso” sui resti delle rovine romane, emerse durante la fase della sua costruzione e visibili – oltre che dall’esterno della struttura – volgendo lo sguardo in basso verso le vetrate del pavimento del foyer una volta entrati; antiche strade che s’intersecano, residui di storia della Brindisi di epoca romana che fanno di un teatro anche un sito museale.
Ci entriamo con le sensazioni in affastello: lo spazio teatrale, l’evento, l’occasione che ha reso possibile che vi assistessimo. Prendiamo posto, come accade di rado, accomodati ciascuno a debita distanza dall’altro su sedie disposte sul palco, gli occhi rivolti verso la platea vuota, dando le spalle alla quale Luigi D’Elia e i suoi musicisti di lì a poco faranno rivivere in voce e suoni l’orazione civile di Niccolini.
“Finalmente in teatro”, “finalmente a teatro” sono le frasi che sento e sono anche le frasi che leggo negli occhi di chi non le pronuncia.
Quello a cui assistiamo è uno spettacolo ancora in fase di rielaborazione, come ci spiega lo stesso D’Elia; le condizioni attuali consentono di farne lettura scenica per diffonderlo, come si diceva, in audio e video, ma nelle intenzioni c’è il progetto di renderlo spettacolo a tutto tondo, con una regia e una scenografia.
Tre musicisti coi loro strumenti, alla loro sinistra Luigi D’Elia davanti a un leggio. Comincia con una voce che è poco più di un soffio, delicata, come chi sta facendo accorato racconto di qualcosa che ha bisogno d’essere maneggiato con cura, col dovuto riguardo verso l’essenza umana di ciò che si narra. Le mani, gradualmente, cominciano ad accompagnare il racconto, dapprima solo una, poi anche l’altra, a calcare a mo’ di rafforzo i punti significativi. Come quando D’Elia pronuncia una parola che ricorrerà: “Esodo”. Nel qui ed ora della narrazione rivive al tempo presente il qui e allora della storia, una storia di disperazione e solidarietà, di fuga e accoglienza, di fame e generosità, tra due popoli che si riscopriranno contigui, “due miserie che s’incontrano”, diverse ma istintivamente capaci di riconoscersi, di riconoscere se stesso nell’altro e l’altro in se stessi.
Il racconto è una cronistoria dettagliata dei giorni degli sbarchi, messa tra l’altro in correlazione coi rivolgimenti politici di quegli anni, che erano quelli di un mondo in rapida trasformazione.
Tutto si trasformava, meno il nostro Paese, guidato dall’ennesimo Governo Andreotti, la cui linea di condotta sulla questione consistette semplicemente nel far finta di niente, nel volgere la testa dall’altra parte, di fatto nell’abbandonare la città di Brindisi al proprio destino, lasciandola da sola alle prese con una situazione di emergenza abnorme. C’è, in tutta la vicenda che si dipanò in quella lunga decina di giorni, tutta la fotografia del’Italia di quegli anni, di un Paese che si apprestava a vivere il terremoto politico che con Tangentopoli avrebbe raso al suolo un’intera classe dirigente. Emerge, questo spaccato, nell’orazione civile – che qui si fa anche politica – di Niccolini e che pare perfettamente incarnata nella figura di Vito Lattanzio, esponente democristiano, già più volte ministro e sottosegretario e che nella circostanza si trovò a gestire (male, malissimo) nelle vesti di Ministro della Protezione Civile l’emergenza rappresentata dagli sbarchi degli albanesi; il “ministro commissario” come lo si definisce a più riprese nel testo, e non senza sarcastica connotazione, quello che a Brindisi a stento mise piede – se non per fugaci vertici in Prefettura – evitando accuratamente di fare atto di presenza alla stazione marittima, dove s’assiepavano le migliaia di disperati scesi dalle imbarcazioni provenienti da oltre Adriatico; il “ministro commissario”, quello che da Ministro della Difesa già dovette rassegnare le dimissioni dopo la fuga di Kappler dall’ospedale del Celio e che invece, durante i giorni dell’emergenza brindisina rimase grottescamente abbarbicato alla poltrona del’immobilismo.
All’assenza dello Stato dovette sopperire la presenza della città e della sua gente. Di questa storia Niccolini fa narrazione accorata e precisa, traducendo in parole essenziali fatti epocali di un tempo passato, trasfondendoli in termini emotivi che li calano nel tempo presente, in ciò trovando piena risonanza nelle doti di narratore di Luigi D’Elia. Tutto questo è, in sintesi, Non abbiate paura.
Il tono della narrazione è in crescendo, seguendo il ritmo naturale di ciò che si racconta, procede come accompagnando l’onda montante degli sbarchi che aumentavano di giorno in giorno, la voce soffusa con cui D’Elia aveva dato principio al racconto comincia progressivamente ad assumere il colore di quella paura che il titolo invita a non avere, ci rende visibile e percepibile l’atmosfera che la città si trovò a vivere; la gestualità è misurata, come si conviene a una lettura scenica, eppure contribuisce a rendere vivida e partecipe la narrazione; commento discreto quello della musica in accompagno, affidato a una formazione per due terzi albanese (Nevila Cobo al violino, Merita Alimhillaj al violoncello, oltre a Claudio Prima, organetto e voce), con sottolineature rarefatte a rimarcare momenti pregnanti della storia.
Il livello di tono di D’Elia sale gradualmente, una progressione interpretativa che procede di pari passo con il crescendo drammaturgico del testo, dall'afflato sommesso e quasi sussurrato dell’inizio all’empito del fervore che si amplifica fino alla conclusione. Una conclusione che ci riporta ai giorni nostri, alle nuove paure con cui siamo stati (siamo) costretti a fare i conti; paure che hanno modificato le nostre vite, paure che ci impongono di indossare una mascherina per proteggere noi e chi ci è contiguo, paure che ci hanno iniziato a far percepire l’altro come una minaccia, paure con cui ci stiamo forse rassegnando a convivere. L’esatto opposto di quello che, in poco più di una settimana, trent’anni fa, la città di Brindisi aveva mostrato e potrebbe ancora testimoniare. Che “da soli non ci si salva”. Una voce registrata, in un italiano chiaro seppur non del tutto corretto e della quale possiamo facilmente intuire la provenienza geografica, dice: “Non sono in grado di ricompensarvi per quel che mi avete offerto”. È l’ultima chiosa. L’attore esce di scena, la musica resta. Fino all’applauso, in cui si accomunano la recita e ciò che s’è narrato, la città e chi, in una densa ora, ne ha raccontato il valore civile. Che resta tale, con o senza medaglie. E che si fa memoria per chi c’era, testimonianza e monito per chi se ne fosse dimenticato.