Francesco Niccolini tra Ulisse, teatro e scrittura
di Manuela Poidomani, Noemi Spasari e Simona Adele Tavola
Questo articolo è stato pubblicato su Recensito il 27 aprile 2021
Nel Tempo degli Dèi - Il Calzolaio di Ulisse è uno spettacolo di amore, studio, di reinterpretazione. L’autore Francesco Niccolini, che ha collaborato insieme a Marco Paolini, ce lo ha voluto raccontare, andando a fondo nella regia e nella magia teatrale. Non solo un professionista di teatro, ma anche scrittore di romanzi e graphic novel. Un uomo che dell’arte fa la sua massima espressione.
A tuo parere, come mai al giorno d'oggi la storia dell'Odissea e soprattutto del personaggio di Ulisse, dopo che son trascorsi secoli dalla sua nascita, viene ancora utilizzata come portatrice di messaggi? Insomma, perché secondo te può ancora raccontare e raccontarci in questo modo?
“È un processo che avviene con gli archetipi. In ciascuno di noi sono presenti alcuni personaggi con i quali abbiamo bisogno di confrontarci e specchiarci per tutta la vita; li vediamo diversi per quanto siamo diversi noi: Ulisse è uno di questi.
Inoltre c’è una distinzione essenziale da fare tra l’Ulisse dell’antichità e quello da Dante in poi a cui è stata affidata una strana falsificazione. Di quest’ultimo se ne parla infatti come di un uomo che vuole andare oltre i limiti, scoprendo ciò di cui non ha conoscenza, e questa è una visione strana rispetto alla personalità che ci ha descritto Omero nella grecità arcaica. Ulisse non voleva partire per la guerra e non pensa ad altro se non a tornare a casa. È l’archetipo dell’uomo che non vuole combattere, e subito dopo quello del reduce, ed è proprio questo il motivo per cui la storia di Omero, il poeta i cui versi esprimono bellezza infinita, è così potente dopo tutti questi anni. Ad ogni parola io mi perdo sistematicamente, è un'esperienza fenomenale, una ricchezza strepitosa ed è per questo motivo che ho deciso, appena finito con l’Odissea, di mettermi a lavorare sull’Iliade, perché sono entrambi archetipi potentissimi che Omero ha rivestito di una immensa bellezza poetica. Ulisse, come Achille, come Romeo e Giulietta o Otello e Iago, non muore mai; sono personaggi di cui noi abbiamo bisogno, tanto quanto l’aria che respiriamo.”
Interpretiamo il vostro Ulisse quasi come una rockstar che, in questa definizione originaria, è colui il cui aspetto e i cui comportamenti possono costituire un modello da imitare. Citando Dante - fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza - la sua figura è stata associata a chi, stando lontano dalla famiglia, ha voluto superare i limiti della conoscenza, affidandosi solo a sé stesso. Ma come dicevi tu prima, Dante ha ribaltato la concezione che Omero gli aveva affidato fin dal principio...
“Esatto, è sbagliato dire che Ulisse voleva superare i limiti della conoscenza perché non è così; lui vuole sopravvivere e tornare a casa. Da Dante in poi abbiamo rivestito di un altro mito la sua figura perché nell’Odissea sono solo due gli episodi in cui è curioso: nell’incontro con le sirene e con i ciclopi. Per il resto la sua figura primigenia è molto umana: non vuole partire e pur di non farlo mente spudoratamente, fingendosi pazzo agli occhi di Agamennone, e per far sì che la guerra finisca trova soluzioni anche con l’inganno. È questa la grande differenza: è un uomo molto intelligente, uno di quelli - dice Omero - che quando apre bocca e parla, prima pensa, e già per un soldato è una cosa rara, e quando parla le sue parole convincono.
Non dobbiamo essere influenzati dalla figura moderna che Dante dà di Ulisse perché quella è la sua interpretazione, diversa dalle fonti originali.”
E cosa differenzia il vostro Ulisse moderno, legato alla contemporaneità, all’Ulisse originale del grande poeta Omero?
“La cultura moderna è superficiale e semplicistica per cui cerchiamo di omettere le parti scomode delle storie; è terribile, ma siamo figli di Disney e di Hollywood. Nell’Ulisse classico di Omero si scopre che, quando torna a casa, fa una strage per l’affronto subito dai principi, pretendenti di Penelope: ne uccide cento, più dodici ancelle, andate a letto con questi uomini volgari e arroganti. C’è quindi forse una netta sproporzione tra uno sterminio da supermercato americano, dove entra il reduce di guerra e inizia a sparare all’impazzata, e una giusta pena perché qualcuno ti ha invaso casa? Forse ha perso il controllo di sé stesso perché sono vent’anni che sta combattendo contro mostri e nemici? Ma non si può trasformare la vendetta di Ulisse nella gara dell’arco, perché questa non è altro che l’inizio di una strage spaventosa di 112 giovani, donne e uomini.
Ai tempi le parole di Marco Paolini sono state: ma io come faccio a schierarmi dalla parte di Ulisse? Dalla parte di uno a cui viene un raptus e inizia un massacro? Ci siamo interrogati su quale fosse la soluzione che ci permettesse di non assolvere la figura di Ulisse, ma di farle pagare il prezzo della sua colpa. Abbiamo quindi posizionato la storia in un momento preciso, quando si avvera la profezia fatta da Tiresia nell'Ade: “Quando tornerai a casa dovrai ripartire subito e dovrai prendere un remo; viaggiare con un remo in spalla e andare non verso il mare ma verso terra e quando sarai arrivato, e sarai lontano dal mare, e nessuno saprà cosa è un remo, e una persona ti chiederà: “che cosa è quel legno che hai sulle spalle?”, finalmente, in quel momento, potrai fare un sacrificio e tornare a casa. A quel punto avrai pagato il prezzo con l’esilio, avrai pagato il prezzo della strage e potrai finalmente tornare a casa tua.” E noi siamo partiti da questo: torna, si scopre a Penelope, ma alla fine, dopo la notte di amore, deve ripartire con il remo sulla spalla. Ma dove va? Ecco, è proprio qui che abbiamo aggiunto qualcosa di solo nostro. Abbiamo detto lontano dal mare, bene; abbiamo detto sulle montagne, bene. Allora, lo mandiamo sull’Olimpo a fare una strage di Dei. Questo è l’obiettivo del nostro Ulisse, mio e di Marco Paolini; questo è il suo viaggio. E gli Dei, che tutto sanno, proveranno a fermarlo sapendo che lui vuole salire là, per farli fuori tutti.”
Ecco, rispetto a questo concetto di “Dei” dove si legge: «gli dei crudeli per cui il tempo non conta, che non invecchiano e non seccano che hanno sempre tempo per fare e rifare le cose», trasportati nella nostra contemporaneità, per te oggi o per voi, chi possono essere questi soggetti?
“Gli Dèi sono sempre esistiti e sempre esisteranno perché li abbiamo inventati noi, dandogli come caratteristica l’eternità. Questo traduce, probabilmente, il nostro desiderio più grande: rimanere vivi, possibilmente restando giovani, belli e forti.
Alla domanda “Chi sono oggi questi Dèi?”, il tentativo della risposta che può in parte darvi la letteratura storico-scientifica-sociologica - soprattutto prima del Covid - è: “Gli uomini”. Vogliono che la loro vita si prolunghi il più possibile; coloro che prima a sessant’anni cominciavano a essere anziani, oggi sono uomini giovani, belli dalla vita piena; stiamo spostando l’asticella della vecchiaia sempre più avanti, con l’obiettivo di eliminarla.
Mettiamo degli inserti artificiali dentro i nostri corpi per essere sempre più potenti, dotati di superpoteri e possibilmente capaci di imprese spropositate, magari cambiando anche i nostri gusci, i nostri corpi, come un backup delle nostre menti, ricordi, esperienze. Questo è l’obiettivo: sostituirci agli Dèi. Uno fra i libri più interessanti che sono usciti in questi anni è un grosso saggio di uno studioso israeliano che si chiama Yuval Noah Harari che ha scritto “Homo Deus. Breve storia del futuro”; interessantissimo perché racconta nel dettaglio tutto quello che l’uomo contemporaneo sta facendo non solo per prolungare all’infinito la propria vita, ma anche per migliorarla. Perché non basta vivere fino a 150 anni, bisogna arrivarci con un corpo giovane e attivo.
Per cui i nuovi Dèi sono i nuovi ricchi, quelli che per primi possono sperare di prolungare la loro vita con i nuovi strumenti e con nuove tecnologie. È chiaro che il Covid ha dato una forte battuta di arresto a tutto questo.”
Gli Dei sono quindi uomini e il loro voler essere perfetti; allo stesso modo, quest’anno ci ha insegnato che ci sarà sempre qualcuno più potente di noi che ci farà capire quanto l’uomo sia più fragile rispetto alla Natura. Quindi sì, gli Dei siamo noi uomini, ma forse nel concetto originario di Dio, come quello che non può essere sconfitto, forse non può essere l’uomo. È la Natura in qualche modo.
“La Natura, finché il pianeta resiste, sicuramente è più potente dell’uomo e di tanto in tanto si vendica.”
Nel tuo spettacolo ci è saltato subito all’occhio il momento in cui Ulisse sbarca nella città di Pozzallo: “Sicilia, terra del sole, dice il dépliant”. Proprio in riferimento a questa città, poco conosciuta, abbiamo creato un collegamento con la cronaca attuale: gli sbarchi che da anni avvengono in questa terra e che hanno riempito di storie questo porto così al confine del nostro Paese. Si tratta di un collegamento insensato o c’è un fondo di verità in questa scelta così inusuale?
“L’intento era proprio questo, di pre-strutturare uno sbarco di persone in fuga che si devono salvare; spesso Ulisse viene anche considerato il simbolo di tutti gli “sballottaggi” in mare, anche se è un po’ diverso: è un soldato che vuole tornare a casa, non in una terra che non è sua. Ma il messaggio non cambia, in alcuni posti viene maltrattato, in altri viene accolto con amore, così come vengono accolti i naufraghi, qualsiasi sia il motivo del loro naufragio. Abbiamo così ambientato il nostro racconto nella contemporaneità.”
Guardando Nel tempo degli dèi – il calzolaio di Ulisse volevamo chiederti anche un aspetto tecnico. Abbiamo notato il particolare delle coperte termiche. Ci siamo domandate se ci fosse un preciso significato dietro di esse.
“Indubbiamente. Nel momento in cui Ulisse arriva a Itaca, quelle coperte che cadono dall’alto rappresentano tutti i morti incontrati nella sua vita; i caduti in combattimento o naufragando. Infatti, è proprio lui ad elencarli tutti.
Quello, nello spettacolo, forse è il più potente richiamo alle tragedie dei morti in mare e sul campo di battaglia. Si tratta di una scena molto bella, in cui Ulisse si rende conto che ci sono uomini morti per colpa sua. È una scena molto potente e suggestiva.”
Per quanto riguarda il tuo lavoro con ERT con cui hai da poco concluso il laboratorio dedicato alla scrittura del teatro per l’infanzia, abbiamo trovato che quest'ultima sia la più difficile da trasmettere e utilizzare; quindi, ci domandavamo se utilizzi delle diverse sfumature, per target di riferimento così vari. Anche perché non ti occupi solo di questo, ma ti sei mosso fra diversi generi: da testi per il teatro di prosa, di impegno civile e per ragazzi, a romanzi e graphic novel; in che modo riesci ad arrivare nel profondo di chiunque ti legge, anche con testi così diversi fra loro?
“Per me è sempre stato il grande divertimento di questo mestiere, capire ogni volta quali sono i registri linguistici giusti, come parlare a un pubblico sempre diverso. Fondamentalmente la differenza è che ci sono delle storie che puoi raccontare a tutti, altre solo agli adulti, o perché sono troppo violente o perché hanno una terminologia complessa e quindi difficile da raccontare a un bambino. Secondo me gli spettacoli più belli che ho fatto per l’infanzia vanno benissimo anche per gli adulti, ma è chiaro che se lavori per l’infanzia devi avere un senso di responsabilità e di attenzione particolare rispetto a cosa vuol dire scrivere per i bambini, e cosa vuoi che arrivi.
Secondo me vengono protetti troppo dentro delle bolle stupide, di dolcezza esagerata, quando poi sono esposti in altri contesti ad una violenza spaventosa. Quello che faccio solitamente è proprio il contrario, cerco delle strade poetiche per fargli scoprire cose difficili. La vita non è semplice neanche per un bambino, che un giorno può scoprire qualcosa che si porterà dentro tutta la vita con dolore. Credo che spesso non ci preoccupiamo seriamente di creare degli strumenti validi con cui loro possano interpretare, anche poeticamente, le cose terribili della vita; spesso la famiglia preferisce negare e spostare più avanti la scoperta di certe cose, invece io credo che dolore e paura siano due componenti che vanno presentate all’infanzia, ma con poesia, dolcezza, ironia, con una serie di sentimenti che permettano loro di cominciare a vivere con quello che gli aspetta in maniera non bruta, ma delicata.”
Quindi anche rispetto al momento storico che stiamo vivendo, che voglia far ben sperare in una prossima “rinascita” a fine pandemia, credi che ci sia bisogno di una qualche riforma scolastica dove fin da bambini si possa insegnare il teatro a scuola e così allenare e creare il pubblico del futuro in grado di apprezzare lo spettacolo dal vivo? A oggi, c’è ancora del pregiudizio nei confronti del teatro, che viene visto come qualcosa di antico, di noioso.
“Secondo me la prima riforma che dovremmo fare, prima che della scuola, è dell’onestà intellettuale di chi lavora, nella scuola come nel teatro e in tutti gli altri campi. Il fondo scolastico è ripiegato su sé stesso, molti ragazzini non amano il teatro probabilmente perché sono costretti a vedere tanti spettacoli brutti. L’industria dello spettacolo spesso non ricerca nessun valore artistico, ma funziona per numeri, finanziamenti, aiuti politici. Quindi forse quei ragazzini hanno ragione a non amare il teatro, forse gli spettacoli belli sono davvero pochi e sicuramente non sono quelli più finanziati dallo Stato. Io non sono un esperto di scuola, non ho figli e non frequento molto il mondo scolastico, ma credo che sia molto grigio: il più delle volte quando entro in una scuola mi sembra di immergermi in un riformatorio. Dipendesse da me vorrei che le scuole fossero dei posti bellissimi, con dei grandi giardini attorno e che gli insegnanti fossero pagati molto bene, dando a questo ruolo il giusto riconoscimento, che è fondamentale; al tempo stesso, però, vorrei che fossero tutti insegnanti estremamente motivati.
Per questo dico che la prima rivoluzione dovrebbe essere rispetto all’onestà intellettuale di tutti e poi sì, cercare di rifondare una scuola completamente diversa, anche se non ho molte speranze per l’Italia. Me ne andrei anche via da questo Paese, ma ho bisogno della lingua italiana per fare bene il mio lavoro.”
Nel tuo lavoro è evidente un forte impegno civile e sociale che trasformi in opere in cui si celano forti messaggi: quali sono le storie che cerchi e dove le cerchi per poterle raccontare a teatro?
“Per fare il mio mestiere bisogna sapere ascoltare e soltanto se si riesce a fare questo si trovano storie che valga la pena raccontare; bisogna stare con le orecchie tese ovunque ci si trovi. Io leggo molto, parlo con tanti attori e registi per interrogarci e cercare di capire cosa sembra interessante da realizzare, sperimentare e non ho freno da questo punto di vista. Sono curioso, giro per molte città e queste sono le fonti possibili.”
C’è qualche tema che ti appassiona più di altri?
“Diciamo che non mi appassiona la filosofia, quindi non vado a cercarla. Poi tutto quello che è un intreccio tra storia, geografia e antropologia mi affascina. Sono come quel calzolaio che deve sporcarsi le mani, come un meccanico, un artigiano. Non sono un pensatore astratto. Un mio vecchio amico in Svizzera, pensionato, alla domanda “tu cosa fai nella vita?” mi rispose “passo il tempo a cancellare le parole astratte”. Io sono abbastanza d’accordo con lui.”
Ulisse ci riporta all’antichità e, se pensiamo all’ambito del teatro greco classico, il fine ultimo era il raggiungimento della catarsi. Antonin Artaud diceva che per raggiungerla si doveva ricorrere a tutto un bagaglio in grado di disturbare la sensibilità e lo sguardo dello spettatore. Nel tuo teatro, che ama anche raccontare storie di impegno civile, cerchi anche tu di arrivare a stimolare la catarsi o di disturbare la sensibilità in chi ti guarda?
“Io dico sempre che faccio teatro perché mi interessa aumentare il caos nel mondo. Devi uscire dal teatro con un battito cardiaco un pochino più alto e sentendoti un po’ meno solo di quando sei entrato. Quindi nella catarsi io non ci credo più di tanto, però quel cortocircuito e quello smarrimento interno che dà un senso all’essere a teatro, per me è importantissimo e fondamentale.”